La denominazione di Bonarda compare per la prima volta, a quanto sappiamo, nel 1685 tra gli appunti raccolti dal conte Pier Francesco Cotti nel suo Giornale di me (Di Ricaldone, 1972), riguardo a dei maglioli da piantarsi nella propria vigna di Neive (Cuneo). Non possiamo determinare con certezza quale fosse il vitigno trattato in questo scritto e forse neanche quello brevemente descritto con questo nome dal conte Nuvolone nel 1798, anche se le poche caratteristiche della Bonarda che questo autore enumera si adattano bene al vitigno che trattiamo. Al contrario, le descrizioni che Giuseppe Acerbi riporta per la Bonarda coltivata rispettivamente a Valenza e nell’Oltrepò pavese, sembrano essere poco calzanti con la morfologia della Bonarda piemontese. La descrizione presente nell’opera di Lorenzo Francesco Gatta, datata 1833 e basata su viti osservate a Strambino (provincia di Torino), fa certamente riferimento all’Uva rara, così come le ‘Bonarde’ della ‘Famiglia delle Balsamine’ descritte dall’abate Milano nel 1839 nel suo ‘Delle viti e dei vini della provincia biellese’.
Oltre a quella del Nuvolone, la prima pur breve descrizione certamente riferibile alla Bonarda piemontese, possiamo forse trovarla nel riferimento alla Bonarda inserita tra le uve ‘classiche del capoluogo’ (Torino) dal conte Gallesio nel 1831 nei suoi ‘Giornali dei viaggi’ (1995). Oltre all’Ampelografia Italiana (Comitato Centrale Ampelografico, 1879-90), che comprende un’ampia trattazione di questa cultivar, si può citare come sicuramente riferibile al vitigno in questione la descrizione presente nell’Ampelografia della Provincia di Alessandria di Demaria e Leardi (1875) e ovviamente la monografia redatta per il Ministero da Giovanni Dalmasso e collaboratori (1963).