Il nome adottato per questo vitigno anche in Italia è il sinonimo francese (Schneider et al., 2001), che non solo è quello indicato nella prima citazione conosciuta, ma anche quello che, come vedremo, evita qualunque confusione. Lo Chatus è infatti coltivato da molto tempo in Francia e in Italia sui due versanti delle Alpi Occidentali. Il primo noto riferimento storico è nel famoso Théâtre d’Agriculture di Olivier de Serres (1600), dove lo Chatus è menzionato insieme ad altri vitigni. Originario secondo alcuni della Maurienne, a fine Ottocento la sua coltura si estendeva in Francia su di un territorio che andava dalla Savoia al Massiccio centrale, sempre su terreni magri e scistosi privi di calcare, dove era la cultivar dominante in un ambiente colturale di montagna modellato da un mirabile intreccio di muri a secco sospesi sulle valli a seguire le curve di livello (Couderc, 1902).
E’ probabile che lo Chatus fosse un tempo alquanto diffuso anche in Piemonte, perchè come vitigno oggi minoritario lo si trova, se pure con denominazioni diverse, lungo tutto l’arco alpino dal Monregalese (ai confini con l’Appennino Ligure) alla Val d’Ossola (Schneider e Bronzat, 1991). Con il nome di Bolgnino e di Nebbiolo di Dronero (o semplicemente di Nebbiolo) era stato descritto e ricordato per la resistenza alla botrite, il colore intenso e la corposità del vino (Di Rovasenda, 1902; Arrigo, 1910). Qualche decennio prima i bollettini redatti dalle Commissioni ampelografiche provinciali segnalavano l’ampia coltura del Bolgnino nel circondario di Saluzzo e del sinonimo Neretto (localmente Neirét) nel Pinerolese (Commissione ampelografica provincia di Cuneo, 1879; Provana di Collegno, 1881). I riferimenti storici ad una Brunetta o Scarlattin in Val di Susa e ad un Brachèt nel Canavese vanno sempre attributi allo Chatus, che ancora oggi è stato recuperato in quei luoghi con questi nomi.