Variabilità
L'identità del Sangiovese toscano con quello romagnolo, il Brunello, il Prugnolo e il Morellino è stata evidenziata fin dal XVIII secolo da numerosi studiosi e tecnici, in particolare Villifranchi (1773) e l'Acerbi (1875) che per primi intuirono quella tra il Sangioveto e il Prugnolo. Anche la Commissione Ampelografica di Siena (1877-1883) accertò senza ombra di dubbio che Sangiovese, Brunello e Prugnolo erano lo stesso vitigno e proposero di chiamarlo Sangioveto. Successivamente Marzotto (1925), Cosmo (1948), Breviglieri e Casini (1965) hanno confermato che la variabilità del Sangiovese è da attribuire alla presenza di sub-popolazioni, che differiscono soprattutto per le dimensioni delle bacche e dai caratteri delle foglie. Campostrini et al., (1995) studiando 14 popolazioni varietali, dislocate nelle zone di tradizionale coltivazione in Toscana, ha evidenziato l'esistenza di 5 ecotipi differenziabili per il peso delle bacche, caratteristiche produttive e qualitative del mosto. Differenze ampelografiche tra sei biotipi di Sangiovese di diversa origine geografica (tre in Toscana, uno in Romagna, uno nelle Marche ed uno di Corsica, indicato come Nielluccio) sono emerse anche da uno studio di Calò et al., (1995).
In tempi recenti è stato infine dimostrato che mediante i marcatori molecolari microsatelliti non è possibile distinguere i biotipi appartenenti al Sangiovese grosso, Sangiovese piccolo, Prugnolo gentile, Morellino, Nielluccio e Uvetta provenienti da diversi territori (Calò et al., 2001), mentre maggiore cautela va osservata nell’utilizzo del nome Morellino se è seguito dai suffissi “Pizzuto”, “di Pitigliano”, “del Valdarno”, “del Casentino” (Scalabrelli e Grasselli, 1985; Calò et al., 2004; Calò e Costacurta 2006)
La variabilità intravarietale è stata proficuamente utilizzata nei programmi di selezione clonale che ad oggi ha permesso l’omologazione di 92 cloni. L'analisi statistica multivariata, condotta sulle caratteristiche morfologiche delle foglie di 12 cloni omologati, ha portato a distinguere 3-4 gruppi di cloni tra loro ben differenziati (Silvestroni e Intrieri, 1995) ponendo in evidenza la possibilità che sul piano pratico non tutti i cloni siano distinguibili sulla base delle caratteristiche fillometriche.
Diffusione
Dalla Toscana e dalla Romagna, zone di elezione, la coltivazione del Sangiovese si è estesa progressivamente ad altre regioni italiane come le Marche, l'Umbria, l'Abruzzo, il Lazio, la Puglia (Mainardi, 2001) e la Corsica. Gran parte di questo ampliamento è avvenuto tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento con la ricostruzione post-fillosserica. Un ampio rinnovo degli impianti ha avuto luogo negli anni 60-70, grazie agli incentivi per la costituzione di ampi vigneti (Piano Verde). L’impostazione produttiva orientata verso la quantità e la scelta non sempre razionale dei siti di impianto hanno contribuito a limitare l’affermazione di questo vitigno. L’obsolescenza dei vigneti ha richiesto il loro rinnovo che è avvenuto prestando particolare attenzione alla scelta del terreno, del materiale clonale e del modello dell’impianto. Quest'ultimo, in particolare è stato orientato verso l’aumento della densità di piantagione e la razionalizzazione delle tecniche di gestione per ottenere uve di qualità idonea alla produzione di vini rossi importanti (Loreti e Scalabrelli, 2007).
Il Sangiovese è attualmente il vitigno più diffuso in Italia, e secondo l’ISTAT (Censimento Generale), nel 2000 erano coltivati circa 70.000 ettari che occupavano oltre il 10% della superficie totale a vigneto, tale superficie è confermata anche nelle statistiche del 2010. Anche in Toscana è il vitigno più diffuso, occupando con 37.170 ha il 67,4% della superficie viticola regionale.
I dati dello schedario viticolo nazionale, peraltro in continua evoluzione, assegnavano nel 2004 una superficie di circa 93.000 ettari così ripartiti:
Regione
|
Superficie (ha)
|
% regionale
|
Toscana
|
47.172,24
|
79,4
|
Puglia
|
16.204,49
|
10,1
|
Emilia Romagna
|
8.561,17
|
14,6
|
Marche
|
8.136,89
|
35,7
|
Umbria
|
3.902,87
|
26,6
|
Campania
|
3.794,90
|
12,9
|
Basilicata
|
1.461,10
|
12,4
|
Abruzzo
|
1.356,06
|
3,6
|
Lazio
|
1.324,83
|
3,1
|
Sardegna
|
393,13
|
0,9
|
Calabria
|
373,80
|
2,3
|
Molise
|
340,43
|
5,3
|
Liguria
|
136,94
|
5,2
|
Totale
|
93.158,85
|
|
Sup. Toscana 1982
|
|
Sup. Toscana 1990
|
Sup. Toscana 2000
|
Sup. Toscana 2008
|
|
ha DOP
|
ha A.V
|
Totale
|
ha
|
%
|
ha DOP
|
ha A.V.
|
ha
|
%
|
|
22.002,37
|
19.648,58
|
41.650,95
|
36.999,30
|
82,36
|
23.457,17
|
9.097,44
|
37.170,20
|
67,4
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Ettari 2000
|
Ettari 2010
|
Quota su totale superficie Italia
|
Quota % su totale vitigno Ue
|
69.746
|
70.289
|
10,8
|
100,0
|
Caratteristiche agronomiche
È caratterizzato da germogliamento piuttosto precoce, che avviene nella zona costiera della Toscana nell’ultima decade di marzo, mentre ritarda di circa una settimana nelle zone più interne. Ha esigenze termiche piuttosto elevate per la maturazione (Turri e Intrieri, 1988) che si completa entro l’ultima decade di settembre nella zona costiera mentre all’interno della Toscana e nelle zone a maggiore altitudine si protrae fino alla prima o la seconda decade di ottobre. L’adattamento del vitigno alle zone più fredde è fondamentalmente legato all’entità delle piogge che si registrano nel mese che precede la vendemmia.
L’elevata fertilità delle gemme basali giustifica l’adozione della potatura a speroni che possono essere anche molto corti nelle zone più calde (Montalcino, Maremma). La vigoria è medio-elevata con moderata capacità di emissione delle femminelle. Si adatta a diverse forme di allevamento che prevedono sia potatura corta (alberello, cordone speronato, GDC), mista (Guyot, capovolto) o lunga (archetto, tendone) in dipendenza delle condizioni climatiche e della fertilità del suolo.
L’utilizzo dei portinnesti nei nuovi impianti risulta ampliato rispetto al passato. Ove non esistano rischi di una siccità prolungata, attuando densità di piantagione elevate ci si orienta verso soggetti meno vigorosi (161/49, 101-14), per passare al 110R dove c’è l’esigenza di una maggiore tolleranza alla siccità mentre nelle condizioni più difficili si utilizza prevalentemente il 1103 P.
Il grappolo è di media grandezza, di forma piramidale e di media compattezza. La gradazione zuccherina che si raggiunge nelle condizioni idonee di coltura è elevata, mentre il contenuto di antociani delle bucce è molto influenzato dal sito, dalla tecnica colturale e in particolare dalla vigoria e dal carico produttivo. I diversi cloni offrono molteplici possibilità di scelta in merito alla morfologia e alle caratteristiche qualitative del grappolo (Moretti et al., 2007, Tamai, 2009), permettendo di realizzare vigneti policlonali.
La sensibilità alla peronospora è media, è maggiormente sensibile all’oidio e al marciume; è abbastanza sensibile agli acari e meno a tignole e a cicaline, inoltre è molto soggetto al mal dell’esca.
Ha una grande adattabilità ai diversi ambienti, anche se nelle zone costiere può essere soggetto a danni da gelate tardive. Uve di elevata qualità si ottengono in terreni poco fertili, ben drenati e in clima asciutto, con carenza idrica moderata dall’invaiatura fino alla maturazione. Per una migliore complessità aromatica è importante avere anche una buona escursione termica. L’effetto terroir è ben evidenziato dalle caratteristiche peculiari dei vini che si ottengono nelle diverse zone.