“Cario: che meglio dir si potria caro per la bontà sua, è uva grande: ha grani grossi ben coloriti, la scorza dura, la rappa rossa, è dolce da mangiare: e fa buoni vini e delicati.” Così Giovan Battista Croce (1606) presentava il Cari, sinonimo torinese del Pelaverga, nella prima citazione certa conosciuta, presente nella sua opera riguardante la viticoltura della collina torinese.
Molti autori ricordano anche la “trantena di botali (botti) de vino de Pagno et del Chastelaro” inviati già nel 1511 da Margherita di Foix, moglie di Ludovico II marchese di Saluzzo, al Papa Giulio II perché “el bon vin gli piasia et non fu mai megliore espessa per la chassa de Saluce fata che mandare questo vino ch’è stato chausa de tanti beni” (Saluzzo del Castellar, a cura di Promis, 1869). Tuttavia che il vino citato fosse prodotto con le uve Pelaverga resta solo una supposizione. E’ invece totalmente mancante di prove l’affermazione che il vitigno sia stato introdotto nel Saluzzese dai monaci di San Colombano che fondarono un monastero a Pagno nel VIII secolo.
Descritto diffusamente da Carlone (1962), che tuttavia dubitava dell’identità tra Pelaverga e Cari, del Pelaverga è stata recentemente compilata una descrizione dettagliata (Schneider et al., 2006).