Descritta per la prima volta dal Sestini (1812) tra le varietà dell’Etna, prende il nome da minna, mammella per la forma allungatadelle sue bacche.
A proposito della Eppula, «Ve n’ha di due colori, bianca e nera, le bacche della prima sono acuminate, di figura somigliante alla Minnedda sebbene più breve e di maggior grossezza. La nera è assai più rara della bianca, ed ha le medesime caratteristiche, somiglia del pari alla zinna di vacca nera (sic. minnedda niura), è di poca durata, potasi stretta, ha nodi a media distanza, dà il vino leggiero e vegeta in Randazzo e Bronte. In Piedimonte viene dinominata Minnedda» (Geremia, 1834; 1939).
Anche questa come la Minnella bianca, era considerata "uva da panaro". Si appendeva nel solaio a gruppi di due grappoli sui fili delle "seggi" "'i zammara" cioè fatte con la fibra di agave. Appesa così arrivava fino a Natale. Se era tanta si vinificava assieme alle altre uve. Veniva anche utilizzata per fare uve passe. Queste si ottenevano selezionando gli acini sani e un po’ appassiti che venivano stesi su un panno bianco di cotone e si mettevano ad asciugare al sole. Quando era asciutta si metteva nelle "casce" e qui l'uva faceva "'a ràcia" che era uno straterello di zucchero cristallizzato e croccante sulla superficie dell'acino.