Considerata alla fine dell’Ottocento l’uva da mensa di gran lunga più apprezzata sul mercato di Torino, della Barbarossa si lodava il colore rosso vivo degli acini, la polpa croccante e la gradevolezza del sapore. Era inoltre un’uva che si prestava alla conservazione in fruttaio ed arrivava così sulla piazza di Torino in tardo autunno, spuntando prezzi doppi rispetto alle altre uve smerciate (Di Rovasenda, 1885). All’epoca epicentro colturale era Cisterna d’Asti, anche se la Barbarossa era presente un po’ in tutto l’Astigiano, ma sempre in modo piuttosto sporadico vista la sua modesta produttività.
In accordo con quanto già affermato da Mas e Pulliat (1876) che la dicono “a foglia frastagliata”, questo vitigno è sicuramente distinto dall’omonima Barbarossa descritto dal conte Gallesio nella sua Pomona: quest’ultima, tipica del Savonese e ben raffigurata dall’artista Del Pino, ha acini di un colore rosa grigio ed un grappolo breve, mediamente compatto, mentre l’uva della Barbarossa astigiana, con grappolo spargolo e allungato, si riconosce per un colore rosso corallo dalla parte esposta al sole, giallo chiaro in quella non esposta.
Ancora diverse sono le Barbarosse coltivate un tempo nel meridione d’Italia (oggi assai rare se non quasi scomparse), mentre proprio in base a recenti confronti morfologici parrebbe identica a quella piemontese una Barbarossa recuperata in Lunigiana (Toscana) descritta da Scalabrelli e collaboratori (2005). La corrispondenza con la Barbarossa corsa, alias Barbaroux, affermata da questi autori va però considerata errata, poiché si tratta di un vitigno distinto.
Non si conosce per ora l’origine della Barbarossa piemontese, ma le citazioni storiche sia in Piemonte (Nuvolone, 1798) che in Toscana (Soderini, 1600) paiono ben adattarsi a questa cultivar utilizzata soprattutto per la tavola e più raramente per la vinificazione.