La prima menzione di un Maccaferro è di Carlo Giulietti (1884), presidente della Commissione ampelografica della provincia di Pavia, che ne descrive un campione esposto ad una mostra d'uve tenutasi a Voghera nel 1873, informazione ripresa anche dal Di Rovasenda (1877). Sempre il Giulietti riporta anche la presenza di una Dura-buccia (o Dura-gussa) in un comune del Vogherese; entrambe le descrizioni ben corrispondono al nostro vitigno. Queste curiose denominazioni potrebbero essere legate alle caratteristiche della buccia degli acini di questa varietà: essa è infatti molto spessa e tannica e inoltre assume una colorazione grigio-bluastra che ricorda quella del 'maciafér', termine che nei dialetti piemontesi indica la scoria carboniosa che risulta dalla fusione del ferro.
In documenti successivi è difficile rintracciare notizie su questa varietà, in quanto con questo nome non è presente nei posteriori testi di ampelografia locale, fatta salva la sola citazione del sinonimo Duragussa ancora nel Saggio del Di Rovasenda (1877). La prima descrizione moderna è quella della Duraguzza stilata da Fregoni e collaboratori (2002). L’identificazione di questa varietà con l’Uva di Mornico, che ha portato alla sua iscrizione al Registro nazionale delle varietà di vite col nome Mornasca N., in base ai documenti storici sarebbe da mettere in dubbio, perché l’Uva di Mornico storica era ad acino sferico, e non ellittico come il Maccaferro.
I vitigni citati per il Modenese con i nomi Amaraguscia o Guscia-amara (Aggazzotti, 1867; Gallesio, 1995) corrispondono probabilmente ad una o più varietà distinte dal Maccaferro e attualmente note con il nome di Scorzamara.